Siamo ormai abituati a vederne e sentirne di tutti i colori e generi, ma questi ultimi giorni, con la macellazione in diretta degli Israeliani, i palestinesi reclusi e ammazzati a Gaza come ratti in gabbia, mi riesce difficile vivere normalmente.
Purtroppo, anche gli accadimenti sembrano seguire un copione prevedibile, con l’inevitabile estensione e intensificazione del conflitto, il coinvolgimento di altre fazioni, nazioni e grandi blocchi, con ulteriore orrore, sofferenza, morti e profughi in fuga. Inesorabilmente la guerra, assieme a quella Ucraina, ci coinvolge e si avvicina sempre di più. Io cerco di comportarmi come sempre, di recarmi al lavoro e svolgere i compiti come d’abitudine, ma mi riesce difficile, sento una profonda stanchezza e una costante tensione.
Mi immagino molti vivano stati d’animo simili, però non se ne parla. Forse per rispetto, perché il nostro dolore non sembra niente in confronto a quello delle persone direttamente coinvolte, ma probabilmente anche perché, come scrive il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, siamo diventati “La società senza dolore”, della finta sicurezza, dell’ostentazione della performance e dell’impossibilità di mostrare fragilità. Infatti, i media e i social sono pieni di resoconti, analisi, critiche e consigli, ma si riflette poco sul senso di smarrimento, impotenza, paura e dolore che proviamo anche noi che siamo distanti. In questo modo, anche la sofferenza, di cui è responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata, e appesantisce ulteriormente il senso di fallimento personale, invece di essere sottoposta a critica.
Han segnala anche che senza una cultura del dolore si creano sempre più estremismi e nasce la barbarie.